Il traduttore può essere considerato il secondo padre di un testo, sia esso letterario che tecnico-scientifico o altro. È colui che legge il testo, lo analizza e infine, lo conduce passo passo verso una nuova vita, trasformandolo e plasmandolo a seconda della lingua di arrivo.
Diverse e contrastanti sono state, nel corso dei secoli, le varie opinioni su quale dovesse essere il fine ultimo della traduzione e su come debba essere fatta un’ottima traduzione. Rispetto a coloro che nel passato propendevano per una traduzione che tendesse verso la lingua di arrivo, o da coloro che invece cercavano una traduzione che rispecchiasse letteralmente l’originale, oggi è diffusa l’opinione che lo scopo principale del traduttore sia cercare il più possibile di produrre nei suoi lettori lo stesso effetto prodotto sui lettori del testo originale. Tale principio, chiamato effetto equivalente, richiede particolare intuizione e immaginazione da parte del traduttore il quale deve entrare in empatia con il lettore, che si ritrova a interpretare un ruolo di non poco conto.[1] Il traduttore, dunque, dovrà tradurre il proprio testo tenendo conto non solo del tipo di lettore a cui era rivolto l’originale, ma anche del fattore psicologico e culturale del lettore nella lingua di arrivo. Come affermano Delisle, Lee-Jahnke e Cormier, il concetto di equivalenza è individuabile nella “relazione che viene a stabilirsi nel discorso tra unità di traduzione della lingua di partenza e della lingua di arrivo” al fine di riprodurre, con la massima corrispondenza possibile, la funzione del discorso del testo di partenza.[2]
Secondo quanto affermato da Paola Faini nel suo libro Tradurre. Manuale teorico e pratico, tale concetto di equivalenza si basa su due presupposti fondamentali: una presenza testuale originale, e una rappresentazione di essa nell’ambito culturale di arrivo.[3] Dunque, partendo da un testo originale, obiettivo del traduttore è quello di ricostruirlo in un testo di arrivo che si proponga come una sua proiezione in una cultura geograficamente e/o cronologicamente diversa.
Tuttavia, sembra che oggi questo concetto di equivalenza sia diventato relativo. È infatti sufficiente che cambi un elemento nel rapporto tra testo di partenza e testo di arrivo perchè questa determini un cambiamento di altri elementi, con il risultato di ottenere una traduzione la cui caratteristica non sarà l’equivalenza, ma l’adeguatezza. In quel caso, il testo tradotto non funzionerà più solo in rapporto con il testo di partenza, ma in rapporto alle diverse esigenze e aspettative del pubblico di arrivo.
Newmark afferma infatti l’esistenza di casi in cui ottenere tale effetto di equivalenza non sia possibile. Se, ad esempio, un testo descrive, qualifica o sfrutta una particolarità della lingua in cui è scritto, sarà necessario spiegarla al lettore della traduzione, a meno che non sia cosi insignificante da poter essere tralasciata. Se ci fosse, nel testo, un aspetto culturale noto ai lettori dell’originale, ma non a quelli della traduzione, il traduttore non potrà modificare il testo per renderlo più accessibile al suo lettore, a discapito dell’effetto di equivalenza, perché se lo facesse perderebbe il senso originale voluto dall’autore primario. O ancora l’opera potrebbe descrivere una cultura lontana da quella del secondo lettore, con cui il traduttore vuole farlo entrare in contatto. Quest’ultimo non si comporterà dunque come l’autore nei confronti del lettore dell’originale, per il quale l’argomento era scontato, ma lo proporrà al suo lettore come un argomento nuovo, da scoprire.[4]
Il principio dell’effetto equivalente però, non trova applicazione quando un artista scrive per proprio piacere personale. In quel caso il traduttore dovrà cercare di essere fedele all’autore e cercare di ricreare l’opera nel modo più completo possibile.
Nel suo libro La Traduzione: problemi e metodi, distingue tre regole pratiche da seguire sia per la traduzione letterale che per l’effetto equivalente:
a) una traduzione deve essere la più letterale possibile, ma libera quanto è necessario; b) una parola della LP non dovrebbe di solito essere tradotta con una parola della LA che presenti un altro equivalente primario nella LP; c) una traduzione deve essere impermeabile all’interferenza – non si adottano mai le collocazioni, le strutture e l’ordine delle parole tipici della LP.[5]
In ogni testo si mescolano due tipi di linguaggio: quello codificato e quello non codificato. Il primo può essere utilizzato come linguaggio tecnico, ma può comprendere anche termini istituzionali, culturali o ambientali come una qualsiasi frase idiomatica, proverbio, espressione con coloriture sociali, esclamazioni usate comunemente, modi usuali per esprimere la date o l’ora. In questi casi il traduttore avrà poca libertà, in quanto tali espressioni presentano un solo equivalente corretto nella lingua di arrivo, ammesso che esista.
Il linguaggio codificato presenta anche un’altra limitazione per il traduttore, che dovrà utilizzare l’apposito gergo per quelle espressioni che fanno parte di un registro e un ambito particolare, come ad esempio l’accettazione (admission) o dimissione (discharge) di un paziente dall’ospedale.[6]
Il linguaggio non codificato invece, è il linguaggio creativo, quello che utilizziamo ogni giorno. È questo il tipo di linguaggio che mette alla prova le capacità del traduttore, che dovrà essere abile nel valutare il senso della traduzione nell’originale e viceversa, al fine di ottenere un linguaggio naturale, correttamente usato in quel contesto. Requisiti fondamentali saranno dunque la padronanza di un ampio vocabolario e la conoscenza approfondita della lingua originale. Inoltre la sua bravura consisterà non solo nel conoscere tutti i mezzi sintattici, ma nell’usarli con eleganza, flessibilità e concisione. Come suggerisce Newmark:
Il traduttore deve acquisire la tecnica per muoversi con facilità fra due procedimenti fondamentali: la comprensione, che può richiedere un’interpretazione, e la formulazione, che può richiedere una ricreazione.
Deve individuare le opposizioni, i contrasti, l’enfasi presenti nell’originale, deve distinguere i sinonimi usati per fornire informazioni aggiuntive o complementari da quelli usati semplicemente in riferimento a un oggetto o a un concetto menzionato precedentemente.
Nella traduzione letteraria, il suo compito più arduo consiste nell’afferrare il ritmo dell’originale.[7]
Il primo compito di un traduttore è capire il testo, analizzarlo e capire l’intenzione del testo per poter scegliere un metodo traduttivo adeguato, al fine di garantire nella sua traduzione la stessa carica persuasiva ed emotiva dell’originale ed influenzare il lettore nello stesso modo, oppure di modificare il testo al fine di renderlo più esplicito e accessibile al proprio lettore. A questo proposito il traduttore dovrà confrontarsi con il lettore, capire quale sia la tipologia a cui si rivolge per poter decidere il grado di formalità (ufficiale, colloquiale, amministrativo ecc.), l’emotività (caloroso, distaccato, neutro ecc.) e semplicità da adottare nella sua traduzione. Infine sono importanti la qualità del linguaggio e l’autorevolezza. Se la forma del testo e il suo contenuto hanno la medesima importanza e ogni parola riveste un ruolo preciso nella formulazione di un concetto, il traduttore dovrà dare la precedenza ad ogni sfumatura di significato dell’autore rispetto alla reazione del lettore. Se poi il testo della lingua di partenza è completamente dipendente da quella cultura, il traduttore deve decidere se il lettore abbia bisogno o meno di ulteriori spiegazioni.
Dopo aver inquadrato la tipologia di lettore, il traduttore dovrà valutare se il testo nella lingua di partenza è diretto (significa ciò che dice), ironico o assurdo. In base al tipo di testo che si trova davanti dovrà decidere come impostare la propria traduzione. Il testo di partenza può presentare da subito il problema dell’ambiguità linguistica, che può essere grammaticale o lessicale (frutto di polisemia o omonimia). In entrambi i casi il traduttore deve tenere a mente che l’ambiguità può essere voluta, e quindi dovrà mantenerla nella sua traduzione, anche se farlo dovesse richiedere un’espansione dell’originale. Se invece non fosse cosi, potrebbe ometterla sulla base del contesto linguistico dell’originale.
Il lavoro del traduttore dunque, è qualcosa di più profondo della mera e semplice ricerca del corrispettivo del termine nella trasposizione di un testo da una lingua ad un’altra. È qualcosa che va oltre. È una ricerca approfondita, un continuo aggiornamento del proprio bagaglio culturale, un costante ampliamento dei propri orizzonti e dei propri ambiti di conoscenza.
Da tutti i dizionari bilingui risulta apparente che per ogni termine di una lingua ci sia il corrispondente esatto in un’altra. Ma non è così. Innanzitutto bisogna considerare le voci lessicali in tre modi diversi:
1) in base al tipo di senso: concreto, figurato, tecnico, colloquiale;
2) in base al grado di frequenza: primario (basato solo sul linguaggio moderno); secondario, collocazionale, creato ad hoc;
3) in base al tipo di significato: centrale o periferico.[8]
È importante che il traduttore individui correttamente le caratteristiche di registro in modo che possa riprodurle nella sua traduzione.
Oltre alle ambiguità grammaticali e lessicali, all’importanza dell’aspetto culturale e alla sovrapposizione e distanza fra due culture, il traduttore si troverà a dover risolvere altri problemi traduttivi, come la traduzione delle metafore, dei neologismi,dei nomi propri, dei termini istituzionali e culturali e dei giochi di parole.
La metafora: è considerato uno dei più ostici e complicati problemi traduttivi da risolvere. Prima di tradurre si deve prendere in considerazione la metafora, l’oggetto a cui si riferisce, l’immagine e il senso. Esistono, secondo Newmark, cinque modi per tradurre una metafora: trasferire l’immagine, trovare un’immagine equivalente, ridurre la metafora ad una similitudine e infine, quello più usato, ridurre l’immagine al suo senso. Per fare una qualunque di queste azioni il traduttore dovrebbe conoscere in modo approfondito sia la cultura della lingua di partenza che quella della lingua di arrivo, e tenere ben presenti gli elementi culturali presenti nella metafora, scegliendo se adottare una traduzione semantica, ovvero parola per parola, o comunicativa, volta cioè a comunicare il significato più che la forma. Spesso, inoltre, ci si ritrova a dover tradurre il linguaggio colloquiale, che rappresenta una sfida interessante per il traduttore, in quanto è in continua evoluzione.
I neologismi: possono essere di vari tipi, che il traduttore deve essere abile a riconoscere e a tradurre nel modo più appropriato. Possono essere parole completamente nuove, basate su nomi propri o derivanti da prefissi. Possono essere il risultato della fusione di due parole, nel qual caso dovrebbero essere tradotti entrambi i componenti della fusione. Quando invece ci si trova in presenza di acronimi, in genere: se internazionali vengono tradotti, quelli nazionali invece, vengono trascritti e seguiti da una spiegazione della loro funzione piuttosto che del loro significato. Se invece si tratta di abbreviazioni, si tende a normalizzarle, cioè a tradurle nella forma non abbreviata, a meno che non esista un equivalente accettato.
In genere si tende a non tradurre i nomi propri a meno che questi non siano personaggi storici. In letteratura di solito i nomi vengono tradotti solo se si naturalizzano l’ambiente e i personaggi. Tuttavia accade sovente che nella narrativa i nomi abbiano volutamente delle connotazioni (descrivono spesso il carattere o il modo di essere di un dato personaggio ad esempio) comunicate attraverso il suono o il significato, che il traduttore può mantenere, cercando di trovare un espediente valido. Ci sono poi le marche e i marchi di fabbrica che non devono essere tradotti, a meno che non siano diventati di uso comune e quindi grammaticalizzati, nel qual caso dovrebbero essere tradotti con un nome comune: es. hoover = aspirapolvere.[9] Anche quando si tratta di nomi geografici, la regola rimane la stessa. A meno che non siano luoghi di rilevanza internazionale, come può essere il nome di una capitale (Roma = Rome), viene conservato il nome originale. Nei paesi bilingue, gli enti geografici hanno di solito due nomi, ciascuno in armonia con la propria lingua. Quando le connotazioni di un nome geografico sono implicite in un testo storico o letterario, se è improbabile che i lettori le conoscano, il traduttore deve esplicitarli nella sua versione. Se la denotazione di un nome è sconosciuta al lettore, il traduttore spesso aggiunge il nome generico appropriato. I nomi di strade e piazze di solito non vengono tradotti, cosi come i nomi di scuole, ospedali o università, perchè legati alla cultura della lingua. [10]
Il traduttore potrebbe trovarsi di fronte più di un registro all’interno di una sola opera da tradurre, specialmente se si imbatte in un testo letterario. Potrebbe essere un testo formale, informale, potrebbe contenere frasi nel cosiddetto slang o in un linguaggio non standard, o ancora un registro basso rappresentato dal dialetto di una zona particolare. Compito del traduttore sarà, una volta riconosciuto il caso, decidere come renderlo in modo appropriato senza perdere l’effetto voluto dall’autore. Ci sono casi in cui si parla di argomenti facenti riferimento ad un ambito specifico. In quel caso il traduttore dovrà utilizzare il gergo appropriato in base al campo in questione. Il traduttore poi, è anche autorizzato ad eliminare un senso speciale di un termine se questo non è interessante per il lettore, o a riprodurlo come curiosità linguistica.
Importante è anche il tono di un testo, è la chiave della sua efficacia comunicativa e anche questo è un elemento che deve essere valutato dal traduttore e riportato nella traduzione.
Caratteristica che contraddistingue un testo tradotto è l’idioletto del traduttore, ovvero la particolare varietà d’uso del sistema linguistico di una comunità che è propria di ogni singolo parlante.
Il traduttore crea la propria riproduzione linguistica di una situazione che coglie attraverso il testo in LP sulla base del proprio idioletto, della propria lingua di uso abituale, con le sue particolarità sul piano grammaticale, lessicale e di costruzione della frase. L’idioletto esprime immediatamente e involontariamente il suo stile e carattere, e regola la naturalezza della traduzione, assicurando che sia moderna e completa.[11]
Da non sottovalutare è la punteggiatura. Sembra scontato che la punteggiatura sia la stessa per ogni lingua, ma in realtà non è cosi, ed è un elemento fondamentale per far intendere il tono del testo. Punti esclamativi e interrogativi, parentesi e quant’altro giocano un ruolo importante nella costruzione di un testo, dell’enfasi e anche del suo significato. È importante quindi tradurre anche la punteggiatura, senza tralasciare neanche una virgola.
Infine i proverbi e i giochi di parole, che il traduttore deve saper riconoscere nel testo, ma soprattutto deve essere abile ad interpretarli e comprenderli a fondo al fine di riportarli correttamente nella lingua di arrivo in modo che il lettore possa afferrarne il senso e avere la reazione che l’autore desiderava.
Quando ci si trova di fronte ad un qualsiasi problema di traduzione di difficile risoluzione, la prima alternativa a venire in mente sono le note. In realtà la nota a piè di pagina rappresenta un po’ una sconfitta per il traduttore, perché vorrebbe dire non essere riuscito a rendere l’idea dell’autore, peccare quindi di originalità e creatività. Si tende dunque a tradurre un’informazione importante inserendo il suo contesto nel testo, per renderlo interessante.
Tuttavia, nonostante sia Eco stesso ad affermare tale principio, nel suo volume Dire quasi la stessa cosa suggerisce di lasciare anche l’arricchimento del testo come ultima opzione. Alla luce di ciò egli distingue quattro problemi principali.
Il primo si ha quando un’espressione del testo originario appare ambigua al traduttore, che sa o teme che una certa parola o una certa frase possano significare in quella lingua due cose diverse. In questo caso, il traduttore deve chiarire partendo dal principio che anche il lettore originario fosse in grado di disambiguare le espressioni apparentemente incerte.
Il secondo si ha quando l’autore originario ha davvero commesso un peccato di non voluta ambiguità. Allora il traduttore non solo risolve il punto nel testo di arrivo, ma illumina l’autore inducendolo a chiarore meglio ciò che intendeva in una edizione successiva dell’opera.
Il terzo si ha quando l’autore non voleva essere ambiguo, ma lo è stato e il lettore crede che sia un’ambiguità interessante testualmente. Il traduttore dovrà allora fare di tutto per renderla.
Il quarto si ha quando autore e testo volevano essere ambigui per suscitare un’interpretazione oscillante tra due alternative. In questo caso il traduttore dovrebbe mantenerla.[12]
Vi è poi l’ipotesi dell’intraducibilità linguistica, determinata dal dato di fatto dell’intraducibilità culturale. All’interno del suo manuale, Paola Faini afferma che tale ipotesi sia fondata sul presupposto che il termine significato non è da intendere solo come un fatto di lingua, ma di parola.
Il senso di tale atto di parola riflette associazioni occasionali legate all’esperienza soggettiva di un mittente e un destinatario, e ulteriormente connotate da uno specifico ambito culturale. Conseguenza di tale presupposto è che il trasferimento del significato non può essere realizzabile, consentendo nel migliore dei casi la sostituzione del significato espresso nella LP con un significato espresso nella LA.[13]
Il testo di arrivo utilizzerà dunque i propri significati, che si sostituiranno a quelli del testo di partenza. Da qui, l’usata definizione di traduttore-traditore.
Ultimo, ma non meno importante, passaggio che effettua il traduttore, è la traduzione del titolo. Non sempre si riesce a tradurre in modo letterale, riportando parola per parola lo stesso titolo pensato dall’autore. Spesso ci si ritrova a modificarne qualche parola, o addirittura a dover scegliere un titolo totalmente diverso, quasi sempre per ragioni editoriali e di marketing, soprattutto quando si tratta di testi letterari. Questa la ragione per la quale si tende a tradurre il titolo come ultima cosa.
L’interpretazione di un testo rappresenta una sfida per il traduttore. Soprattutto quando si trova ad affrontare la traduzione di un testo appartenente ad una cultura storicamente o geograficamente lontana dalla sua. È un continuo mettersi alla prova, cercare di migliorare e di apprendere quanto più possibile al fine di poter realizzare una traduzione ottimale.
La traduzione, seppure con tutti i limiti e le problematiche che la riguardano, resta irrinunciabile, perché risponde alle esigenze comunicative di un mondo che non ha ancora conquistato (e nel quale difficilmente potrà affermarsi) una lingua globale.
[1] La Traduzione: Problemi e Metodi, P. Newmark, Garzanti, Milano, 1998, p. 30
[2] Tradurre. Manuale Teorico e Pratico, P. Faini, Carrocci, Roma, 2010, p. 9
[3] Tradurre. Manuale Teorico e Pratico, P. Faini, Carrocci, Roma, 2010, p. 10
[4] La Traduzione: Problemi e Metodi, P. Newmark, Garzanti, Milano, 1998, p. 31
[5] La Traduzione: Problemi e Metodi, P. Newmark, Garzanti, Milano, 1998 p. 32
[6] Esempio preso da La Traduzione: Problemi e Metodi, P. Newmark, Garzanti, Milano, 1998 p. 41
[7] La Traduzione: Problemi e Metodi, P. Newmark, Garzanti, Milano, 1998 pp. 42-43
[8] La Traduzione: Problemi e Metodi, P. Newmark, Garzanti, Milano, 1998 p. 59.
[9] La Traduzione: Problemi e Metodi, P. Newmark, Garzanti, Milano, 1998 p. 132
[10] La Traduzione: Problemi e Metodi, P. Newmark, Garzanti, Milano, 1998 p. 134
[11] La Traduzione: Problemi e Metodi, P. Newmark, Garzanti, Milano, 1998 p. 240
[12] Dire Quasi La Stessa Cosa, U. Eco, Bompiani, Milano, 2003, pp. 111-112
[13] Tradurre. Manuale Teorico e Pratico, P. Faini, Carrocci, Roma, 2010, p. 14